Vista da quaggiù la salita appare sin da subito faticosa. Le dune sono meravigliose da vedere ma difficoltose da scalare. Non si sa mai quando la sabbia è compatta garantendoti il grip o quando invece cederà a tradimento facendoti sprofondare fino alle ginocchia, obbligandoti a uno sforzo sovrumano per avanzare fino in cima.
Le dune di Tin Merzouga, situate in quella porzione di Sahara algerino che è il Tadrart Acacus, sono una delle tante meraviglie che il deserto regala a chi sceglie di percorrerne le piste. In realtà quando si atterra a Djanet l’istinto è di seguire le tracce di Jack Nicholson in “Professione reporter”, ma sfortunatamente il Tassili n’Ajjer è momentaneamente chiuso agli stranieri. Le carovane che attraversavano il deserto, trasportando sale e merci, oggi sono state sostituite dalle tratte di disperati che vendono ogni avere per affidare il sogno di un’esistenza migliore alle imbarcazioni che li trasportano verso l’Europa. E così per ragioni di sicurezza molte porzioni di Sahara che appartengono al territorio algerino sono off limits per i turisti. Con l’eccezione appunto del Tadrart.
E alla fine sono arrivato in cima alla duna fatidica, che troneggia sullo splendore del paesaggio circostante dall’alto dei suoi oltre trecento metri.
Mi lascio cadere più che sedermi sulla sommità mi concentro sulla veduta a perdita d’occhio. Il Tadrart è noto per le straordinarie formazioni rocciose che vi si trovano. Erose dal vento nel corso di intervalli di tempo incalcolabili le rocce sono state scolpite in sagome bizzarre e imponenti: le si potrebbe contemplare per ore, osservandone le sfumature cangianti a seconda del movimento del sole.
Ma adesso ciò che mi sorprende di più è l’alternanza di forme pietrificate e dune a perdita d’occhio. Volgo lo sguardo a est. Una manciata di chilometri e il confine libico è proprio lì, dove si staglia quella catena ininterrotta di creste che compongono il mare di sabbia condiviso tra Libia e Algeria. So che decine di migliaia di soldati algerini sono schierati a protezione di una delle frontiere più calde del pianeta, per impedire che la deriva che ha disintegrato la Libia si estenda al di là delle geometriche e artificiose linee di confine fino al loro territorio. Ringrazio in silenzio il governo algerino che con questo massiccio spiegamento di truppe mi consente di fatto di godere di un’esperienza sublime, perché al di là delle dune, delle rocce e degli incontri – sporadici ma sempre garantiti- coi gruppi di Tuareg insediati da queste parti, potersi avventurare nel Sahara mi permette di entrare in contatto con una natura severa ma autentica, e mi concede l’opportunità di riflettere con calma su questioni che la frenesia del mio quotidiano a casa non mi permette di valutare con la dovuta attenzione.
Anche per questo ho scelto di affrontare questo viaggio a piedi. Ovviamente la logistica di un esperta guida locale è sempre al mio fianco ma ho deciso di scarpinare tra rocce e sabbia di questo meraviglioso altipiano proprio per entrare maggiormente in simbiosi con il deserto: dormo all’aperto per non perdermi neanche una singola notte l’appuntamento con Sirio, Aldebaran, e la via lattea e il Grande carro e le costellazioni e la Cintura di Orione, e tutti quegli innumerevoli punti luce che pulsano da distanze siderali, il riflesso astrale della sconfinata distesa che sto attraversando da giorni.
Sorrido quando rifletto sul fatto che questo posto millenni or sono era una distesa verde dove l’acqua donava la vita a uomini e creature, oggi stanziati in altre aree geografiche di questa Africa sempre più martoriata da interessi spietati, politicanti miopi e crudeli e giochi di potere insensati. Eppure eccole qui le prove che un tempo anche qui c’è stata la vita: le incisioni e le pitture rupestri del Tadrart Acacus sono tra le meglio conservate dell’Africa. Rinoceronti, elefanti, giraffe. Squisitamente lavorati in enormi lastre di roccia oppure dipinti in delle cavità con tinte che il trascorrere dei secoli ha sbiadito solo in minima parte. Perché in viaggio il tempo trascorre più veloce che in ufficio?!? Quanto vorrei poter rimanere qui ore intere non a osservare ma a salvare nell’hard disk che è il mio cervello i movimenti naturali delle zampe, le silhouettes perfette, le parti anatomiche così fedelmente rappresentate da questi artisti straordinari la cui preoccupazione principale era proteggere la vita propria e dei propri cari da un quotidiano così distante dal mio.
Verrebbe quasi da commuoversi a contemplare la squisitezza di queste opere d’arte incluse ovviamente nel Patrimonio Unesco, ma le uniche lacrime concesse sono quelle della più famosa tra le incisioni rupestri dell’intero Sahara: La vache qui pleure. La mucca che piange è un’ incisione che occupa l”intera superficie di una roccia mastodontica e rappresenta appunto un gruppo di bovini così reali da lasciare senza fiato. Avvicinatevi, osservate attentamente: non ci sono sbavature negli intarsi con cui l’ignoto artista ha cesellato le fattezze dei bovini. E nessuno saprà mai se quelle incisioni sotto gli occhi di una delle mucche sono davvero le lacrime che hanno dato il nome al sito. Ma ormai non importa più: cosa aggiungerebbe saperlo all’incanto di un’esperienza indimenticabile?…
Due voli notturni consecutivi mi toccano per tornare a casa: il primo da Djanet per tornare ad Algeri, il secondo per rientrare in Italia. Un operativo infame, dopo giorni interi di sforzo intenso, di salviettine umidificate agognando la doccia e di sabbia e polvere che sono entrati dappertutto: valigie, macchina fotografica e persino in gola.
Il bianco abitato di Algeri ondeggia tra le colline circostanti precipitandosi in mare quasi a tradimento. Il monumento all’Indipendenza si staglia verso il cielo da un’altura visibile da molti angoli della città, ma è nei vicoli della kasbah che si respira ancora la vera anima della capitale. Poco importa che i residenti siano ormai abituati a stranieri e turisti. Luogo da sempre indicato come ideale per agguati orditi da abili borseggiatori, oggi la kasbah accoglie chi sale e scende tra scalinate, edifici fatiscenti e abitazioni tradizionali con il sorriso franco dei residenti e il trambusto di un quartiere in cui la vita ha prevalso a dispetto di terremoti devastanti, di una guerra civile sanguinosa e di una corrente situazione economica e sociale assai difficile.