Innanzitutto bisogna scegliere quale parete si vuole ammirare. Sì, perché per raggiungere il  Kangchenjunga si può scarpinare attraverso i sentieri del Nepal oppure dell’India. La durata del cammino quindi varia a seconda del percorso selezionato, come del resto cambiano i regolamenti di frontiera per il rilascio del visto di ingresso. In Nepal poi si può addirittura scegliere tra due postazioni privilegiate: il campo base Pang Pema, a nord del massiccio, situato nell’estremo nord est del paese a ridosso del Tibet oppure lo Yalung Base Camp, che guarda alla vetta da sud a poche miglia dalla frontiera indiana. Io ho scelto la terza opzione: ottenuto il visto per l’India mi sono recato nello stato del Sikkim.

Questa porzione di territorio, che appare minuscola se paragonata all’intera estensione del subcontinente, è incastonata tra Bhutan, Tibet ( Cina, per essere geopoliticamente corretti) e Nepal ed ecco che il viaggiatore si viene a trovare così in un contesto che presenta un pluralismo storico, paesaggistico e culturale senza eguali: tu arrivi coi tuoi scarponi, la giacca in goretex e gli integratori tutto concentrato sul tuo obbiettivo ma il Sikkim ti accoglie come un reame incantato, che vive un’esistenza propria, fuori dal tempo, protetta da ghiacciai maestosi, vette che puntano cieli di un blu scintillante e che emana un senso di serenità straordinario: il fattore che più colpisce lo straniero. Un tesoro custodito negli sgargianti monasteri della regione e a disposizione di tutti; basta togliersi le calzature e accogliere il sobrio invito dei monaci a partecipare alle funzioni religiose che scandiscono le loro giornate. Ci sarà una tazza di te anche per voi.

La città di Darjeeling, nel Bengala occidentale, conserva ancora un’atmosfera informale e rilassata nonostante il fiorente commercio del tè e una acquisita notorietà a livello turistico. E’ un balcone da cui si può ammirare l’alba sul Kangchenjunga- in una giornata particolarmente limpida si scorge anche l’Everest ma solo in lontananza- e da cui ci si imbarca, stipati in una jeep insieme agli abitanti del luogo, verso Yuksom. E’ da questo sonnolento villaggio che parte l’intera avventura: a Yuksom si incontrano la guida e i portatori, si controllano i permessi necessari e infine ci si addentra nel parco nazionale per il percorso di andata e ritorno fino al passo Goecha La.

Nima, il ragazzo ventunenne che mi è stato assegnato come guida mi introduce agli altri tre membri della nostra spedizione. Il cuoco, il tuttofare del gruppo e il proprietario degli dzo; non parlano inglese, si presentano con fare dimesso e io non afferro i loro nomi. Non li conoscerò mai… è strano che questi tre individui, così loquaci tra loro, stentino addirittura a incrociare il mio sguardo: il non potersi esprimere in un idioma comune è certo una barriera non di poco conto, però insomma mi fa effetto affidare il mio progetto e l’incolumità della mia persona a individui coi quali finirò per scambiare solo poche, formali parole, per l’intera durata del trekking.

Quando ci si appresta a calcare i sentieri himalaiani l’immaginario vola subito ad altitudini notevoli e potenzialmente fatali; a sentieri impegnativi e panorami mozzafiato. A difficoltà logistiche e spazi sconfinati. Così quasi mi pare di non essermi spostato da casa quando, i primi due giorni, il nostro percorso prevede solamente una salita neanche troppo faticosa attraverso i boschi. Il dislivello non è particolarmente impegnativo, l’altitudine non costringe ancora a doversi fermare un’intera giornata per acclimatarsi e la volta verde ricopre, letteralmente, il sentiero. Un ponte tibetano con le bandiere sventolanti, il solito cigolìo e le roboanti acque sottostanti viene dunque accolto come un piacevole diversivo: Nima mi invita a una pausa, corroborante per la vista più che per i muscoli, non ancora sottoposti a sforzi importanti.

Il cuoco e il suo aiutante infatti – un giovane che sarà il tuttofare del viaggio- proseguono di buona lena carichi come asini verso l’accampamento dove trascorreremo la notte. So già che al mio arrivo troverò la tenda montata, il tavolino pronto per la cena e il mio sacco a pelo preparato a difendermi dal gelo notturno già steso sul materassino. Gli dzo, i quadrupedi che sono il risultato dell’incrocio tra gli Yak e le mucche domestiche, ciondolano sui sentieri con le loro enormi corna ricurve sotto il peso delle nostre masserizie, e noi riprendiamo il cammino. Siamo in ottobre, il periodo migliore, pare, per poter contare su cieli limpidi e sgombri da perturbazioni guastafeste. Tuttavia la coda di un monsone ci impedisce di godere appieno del bel tempo: fino a mezzogiorno non si ravvisa nuvola alcuna, mentre dopo pranzo, durante ogni giornata del nostro percorso, i nembi si materializzano come dal nulla a cancellare ogni sfumatura. Per fortuna, almeno le ore migliori per scattare le foto risultano al sicuro. In montagna è sempre una questione di prospettiva: il monte Pandim che si staglia di fronte a noi prevale sulle dimensioni delle cime tutt’intorno. Sfiora appena i 6700 metri ma persino il ruscello che stiamo costeggiando pare gorgogliare in modo più dimesso al cospetto di questo massiccio di ghiaccio che incombe nell’intero spazio, nel frattempo fattosi più aperto.

“Cinque cime radunate insieme”, è questo il significato del termine che da il nome alla montagna. Ed effettivamente il colosso del Kangchenjunga non è un singolo monolite ma un massiccio che, se osservato attentamente in orizzontale, rivela la presenza appunto di più picchi. E’ facile anche senza l’indicazione della guida scorgere quello più alto, che anche se osservato a distanza si staglia al di sopra dei fratelli, e che rappresenta il coronamento dei sogni concepiti a casa mia in riva al mare e degli sforzi intrapresi, nonché la ricompensa per i sacrifici che ogni avventura del genere richiede.

Ogni trekker reagisce a modo suo quando, di una montagna vista inizialmente sulle riviste specializzate, gli riesce infine di scorgere l’estrema propaggine spazzata dal vento. Ma nel mio caso l’emozione assoluta si completa con tante altre riflessioni: qui, sul passo Goecha la, ad un’altitudine di 4940 metri realizzo con un sorriso furtivo che l’intera Europa si trova in linea d’aria al di sotto delle mie suole in vibram, che la montagna non è solo una conquista di cui vantarsi ma una dimensione in cui entrare in punta di piedi; e a cui bisogna concedere il tempo necessario per fidarsi degli ospiti ed elargire loro tutti i doni che solo questi splendidi ambienti possono regalare. Al termine di ogni trekking che duri più giorni lo staff che ti accompagna è solito congratularsi sinceramente per aver portato a termine l’impresa. Ho invitato i ragazzi a cena in un ristorantino di Yuksom per ringraziarli del loro operato: in montagna la distanza tra guide e clienti si stempera in un cameratismo che prescinde da contratti e bonifici, e mentre osservo i miei compagni di viaggio brindare con le birre locali intuisco solo ora il vero significato del termine

 “Suk-kim”, da cui deriva il nome di questo magica porzione di Himalaya.

Sikkim, “le dimore in cui regna la pace”.

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