Il sole del Mediterraneo sulle coste dell’Africa risplende e riscalda anche in inverno. Sono giorni difficili questi, ad Algeri, perché la folla protesta contro la quinta candidatura consecutiva di un presidente che in molti considerano nient’altro che il fantoccio dei militari che, di fatto, governano il paese.
Ma la visita del Museo del Bardo scorre tranquilla, estasiati da maioliche di tonalità portoghesi e squisitezza persiana. Solo avvicinandosi al centro cittadino si scorgono le numerose camionette blindate delle forze dell’ordine che vigilano, pronte all’azione, sui manifestanti che si limitano ad evocare ad alta voce un malcontento che nemmeno l’indipendenza dalla Francia ottenuta nel 1962 ha mai potuto lenire.
La kasbah si inerpica dal lungo mare lungo i pendii, un faticoso saliscendi tra scalinate impervie, rimasugli di edifici fatiscenti e residenti locali ormai abituati a turisti e fotografi. Memorie della pellicola di Pontecorvo mi sospingono fino alla basilica di Notre Dame d’Afrique, la chiesa cattolica che dall’alto del promontorio consente di avvistare, lungo la carreggiata che conduce all’aeroporto, il minareto squadrato di quella che, una volta inaugurata- per ora non le è stato attribuito neanche il nome-risulterà la terza moschea più grande del mondo.
All’interno dell’edifico cristiano l’iscrizione che esorta la Vergine a pregare “per noi e per i Musulmani” e poi lì in basso, a ridosso del mare, le lapidi dei cimiteri cristiano, ebraico e musulmano. Le une accanto alle altre.
Bisogna davvero morire per poter vivere in pace?…